L’era del manicomio chimico diffuso. Il cavallo di Troia sotto forma di pillola
Il paziente, anziché essere internato tra mura e sbarre, si trova ad assumere il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco. Il manicomio si è trasferito nella testa del paziente attraverso un moderno Cavallo di Troia che ha la forma simpatica e colorata di una pillola che, spesso, sin dal nome, promette un immediato e duraturo sollievo.
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Il manicomio chimico ricostruisce i passaggi principali che hanno portato all’era della psichiatria chimica. Tutto può essere fatto risalire, secondo l’autore, al senso di frustrazione provato, sul finire degli anni Cinquanta, dagli psichiatri che si sentono gli unici medici incapaci di ottenere terapie efficaci.
Entro la prima metà del Novecento la comunità medica ha a disposizione antibiotici, anestetici, antistaminici, antidiabetici, antiepilettici, sedativi ecc. Tali farmaci erano stati individuati identificando l’agente eziologico del disturbo e, successivamente, era stata sviluppata la terapia specifica. Nel caso degli psicofarmaci, continua l’autore, «è successo il contrario: prima, accidentalmente, è stata trovata una molecola, e dopo sono state formulate delle ipotesi, più o meno verosimili, sulla causa del disturbo mentale. Ipotesi che poi, surrettiziamente, sono diventate prove (e dunque teorie), grazie a una straordinaria campagna informativa delle aziende farmaceutiche» (p. 52).
Quando, nel 1949, Hanri Laborir, dopo aver somministrato ai sui pazienti la prometazina (un antistaminico), osserva che questa alleviava il dolori nei pazienti precedentemente sottoposti ad intervento chirurgico, può dirsi iniziata “la rimonta della psichiatria”. Sulla base delle osservazioni di Laborir si giunse ben presto alla sintetizzazione della clorpromazina, capace di rendere i pazienti sottoposti a precedente intervento chirurgico in una sorta di stato crepuscolare. Dal 1952 la clorpromazina venne somministrata ai pazienti psicotici di Parigi e, pochi anni dopo, nei manicomi di tutta Europa. «Siccome i pazienti, trattati con la clorpromazina, apparivano atarassici, come degli zombie […] chiamarono questa molecola, giustamente, neurolettico, perché induceva una neurolessia, nel senso che rallentava il sistema nervoso centrale, determinando sintomi simili a quelli prodotti dall’encefalite letargica» (p. 53).
Ed è così che, scoperta dopo scoperta, nell’arco di nemmeno un decennio, la psichiatria si trova ad aver individuato «tre farmaci capaci di aggredire tre importanti dimensioni psicopatologiche: la clorpromazina per i malati agitati, aggressivi, maniacali, psicotici; il clordiazepossido per gli ansiosi e l’iproniazide per i depressi. Tre farmaci scoperti casualmente e prescritti secondo il criterio che ancor oggi regola la prescrizione degli psicofarmaci: ex adiuvantibus. Secondo giovamento» (p. 54). Grazie al successo commerciale ottenuto dalla clorpromazina in poco tempo si arriva a sintetizzare le principali classi di neurolettici di prima generazione, dal butirrofenone ad attività neurolettica, l’aloperidolo, il neurolettico più prescritto al mondo fino agli anni Novanta, quando fanno la comparsa neurolettici di seconda generazione, gli antipsicotici atipici. Tale seconda generazione pare determinare con minor frequenza effetti collaterali (come il parkinsonismo) e risultare più efficace nel trattamento delle psicosi gravi.
I dati riassunti dall’indagine di Whitaker a cui fa riferimento Cipriano, sono impressionanti: «Nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia, che significa 1 americano ogni 617 abitanti. Nel 2010, invece, esistevano quasi 2.500.000 persone con questa diagnosi. 1 americano ogni 125 abitanti. Qualcosa non funziona in questa rivoluzione farmacologica» (p. 62).
Secondo la ricostruzione proposta da Cipriano, le responsabilità della deriva farmacologica della psichiatria ricadono principalmente su quattro istituzioni americane: l’American Psychiatric Association (APA), le case farmaceutiche, il National Institute of Mental Health (NIMH) e la National Alliance for the Mentally Ill (NAMI).
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Sarebbe sbagliato pensare che l’invasione degli psicofarmaci riguardi soltanto “i malati”, visto che, sostiene Cipriano, agli psichiatri ed alle case farmaceutiche interessano anche altri soggetti. Da qualche tempo la diagnosi sembra sottostare all’urgenza burocratica di considerare “malattia” qualunque disagio psichico e, come abbiamo visto, la sua cura proposta, facilmente, prevede il ricorso ai farmaci. Oggi, mette in guardia l’autore, si può diventare pazienti psichiatrici senza saperlo; per ogni stato emotivo forte esiste “il farmaco giusto” e se, ad esempio, un lutto determina uno stato di tristezza prolungato, in un attimo questa può essere rubricata come depressione e curata attraverso psicofarmaci.
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